Capsula del tempo

Quello che oggi vorrei esprimere non è alcun commento aspro su un’illusoria libertà, né tantomeno una sferzante dissertazione sul decadimento culturale che investe la società, no, nulla di tutto ciò. All’adorabile e sana contestazione, al bisogno impellente e profondo di andare contro tutto e tutti, oggi voglio contrapporre la placida esigenza dell’addio. Questa che vorrei costruire è una capsula del tempo in quanto oggi, per la prima volta forse, ho capito che il vero nemico non è l’uomo, né tantomeno il suo riflesso, ma proprio l’infamia del tempo che scorre separato dalla nostra volontà. Ho sempre pensato che quelli che sarebbero stati gli anni migliori della mia vita, non avrebbero trovato fine, come un ruggito roboante che spacca il silenzio dell’eterno, un grido di dolce inerzia e dell’ingenuità e sfrontatezza, eppure. Eppure quel ruggito dell’adolescenza, che più che ruggito pare un miagolio, è giunto al termine. Giunge al termine senza nemmeno che me ne renda conto, crudele, come una cascata d’acqua gelida che ti sveglia d’improvviso. Ero pronta a questo risveglio? Assolutamente no. Vorrei accarezzare un’ultima volta quelle pareti fatiscenti che per anni con goliardia denigravo e polemizzavo, vorrei ancora una volta lamentarmi del voto “immeritato”, struggermi in quelle squisite frivolezze che sembrano rivoluzionarie, sì, la rivoluzione dei don Chisciotte, ma quanto sono stati magici quei giorni? Le lacrime, le risate, le condivisioni, il gruppo, i professori, le polemiche e le riflessioni. Quelle piccole mura, probabilmente fatiscenti e fragili, in realtà, reggevano il mondo: il mio mondo, fatto di condivisione, di scherzi e di passioni. Il mondo colorato dei compagni di banco che giocano a tris durante matematica, del panico pre-interrogazioni, e i rituali magici per “accalappiare” un miracolato sei in fisica. Che crudeltà! Ora che il mio percorso giunge al termine e dovrei mostrare la mia maturità, mosaici, frammenti di piccole giornate quotidiane infrangono la mia mente e rendono la mia percezione così infantile, così tremendamente infantile. Questo tempo infame vorrei bloccarlo, vorrei non smettere mai di aspettare, sognante, l’ultimo suono della campanella, ora che quel suono mi terrorizza così tanto. Quando uscirò da questo nido, quando anche questa famiglia che così faticosamente ho cercato di costruirmi crollerà come l’ennesimo castello di carte della mia vita, io chi sarò? Sarò sempre la ragazza del treno perennemente in ritardo? La procrastinatrice seriale dell’ultimo minuto che se la cava sempre? Sento che un pezzo di me, forse quello più vivo e vivace, deve dire addio ai suo colori, tagliare quel cordone ombelicale per rinascere, ma dove? Non si sa. L’unica cosa certa è la nostalgia di quei giorni che non torneranno mai, sottratti crudelmente da una pandemia che ha impoverito i ricordi. Io, che dovrei dimostrare ora la mia maturità, abbraccio questi ricordi, come una bimba abbraccia il suo peluche: non voglio separarmene. Perché è vero, ci siamo lamentati così tanto, abbiamo sperato che questi anni passassero, eppure mi trovo alla deriva senza mai aver osservato l’oceano, sono persa, dopo aver creduto di aver finalmente trovato me stessa. Di questi cinque anni, non voglio portare con me il rimpianto di ciò che non è stato, ma la gioia di tutto quello che fu ed ora è, anche se per poco. Anche questo Peter Pan capriccioso deve volare, ma non verso l’isola che non c’è, ma verso la vita vera, quella senza le calde mura accoglienti di una classe che ha imparato a conoscerti e a volerti bene, per addentrarsi in un mondo ampio, senza muri, o forse con mura altissime da scalare: chi può dirlo?
Eppure… In questa capsula del tempo, fatta di infinite parole, io imbriglio il ricordo più prezioso e più doloroso, di chi, in fin dei conti, proprio non riesce a pronunciare la parola “addio”.

Maria Grazia Splenito 5Ap

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