Quando la cura può diventare malattia
LA PSICHIATRIA
Il concetto di malattia mentale sembra essere scontato. Ciò che infatti caratterizza questa condizione è un’alterazione delle normali funzioni psichiche. La semplicità di questa considerazione presenta diversi punti deboli. Innanzitutto, appare problematico lo stesso concetto di normalità a cui essa fa riferimento: ci siamo abituati a pensare che la distinzione tra normalità e anormalità sia meno netta di quanto possa sembrare. Gli studi di psichiatria e la pratica clinica hanno rivelato che tra il pensiero “normale“ e quello disturbato vi è una relativa continuità, così come nella persona globalmente sana di mente si possono osservare comportamenti nevrotici di tipo compulsivo, ossessivo, ansioso. L’idea di un confine assai labile che circoscrive la normalità è in realtà il punto di arrivo di un lungo percorso che passa attraverso diverse interpretazioni della follia fatte nel corso della storia, vista come un invasamento divino, o come una possessione demoniaca in epoca medievale… Con la nascita di un vero e proprio sapere sui disturbi mentali ci fu anche la creazione di luoghi specifici per l’internamento delle persone che ne erano affette, ossia i manicomi. Si trattava di luoghi in cui venivano rinchiusi e segregati individui folli, affidandoli al controllo della scienza. La medicalizzazione della follia portò all’adozione di pratiche curative che erano in realtà vere proprie violenze fisiche e psicologiche sul soggetto: dai salassi, alle immersioni nell’acqua gelida, fino ad arrivare a trattamenti estremi come la lobotomia o l’elettroshock, con il tempo soppiantate dall’affermarsi di terapie farmacologiche. In generale la psichiatrizzazione ha ottenuto l’effetto contrario di quello che si sperava in partenza: ha avuto l’effetto di disumanizzare l’esperienza del disagio mentale, concentrando l’attenzione sulla “malattia” e dimenticando il malato nella sua globalità di corpo e anima, che spesso è proprio ciò che cerca disperatamente di esprimersi attraverso il sintomo patologico. Dunque, possiamo definire la psichiatria come un sistema di controllo sociale, che ostacola la reale comprensione dei soggetti con disagio mentale? Forse si. Alla radice di tutto ciò c’è un marchio, il discredito sociale indirizzato verso chi è portatore di una caratteristica che lo rende diverso dagli altri membri della categoria cui appartiene (in questo caso, comportamenti percepiti come “anomali“ rispetto alle consuete condotte umane). La stigmatizzazione produce l’isolamento sociale dell’individuo che ne è fatto oggetto, ma incide sulla sua stessa identità, portandolo in qualche modo a identificarsi con il ruolo che gli è stato assegnato. Non è raro il caso di persone che si ricoverano spontaneamente perché hanno interiorizzato i consigli di chi li ha indirizzati in tal senso, al punto di convincersi che è la soluzione più utile. Fattori come la condizione sociale giocano un ruolo determinante in quanto una persona di bassa estrazione ha più raramente le risorse, materiali ma soprattutto culturali, per fronteggiare il proprio disorientamento psichico e una volta ricoverato il soggetto trova la validazione scientifica del pregiudizio cui è fatto oggetto: si cala interamente nell’identità del “paziente psichiatrico“ e si adegua all’organizzazione della vita imposta dall’istituzione; se trova la forza di ribellarsi, anche le sue reazioni vengono interpretate come un sintomo della patologia che lo affligge con il risultato di racchiudere la sua situazione in un tragico circolo vizioso. È la condanna sociale, la colpevolizzazione, il sostenere che questi disturbi non hanno rimedio e sono pericolosi, e, per chi soffre di questi disturbi come spesso per le loro famiglie significa vergogna, senso di colpa, necessità di isolarsi, o sparire. Significa negare la dignità di malattia alle malattie mentali, farne molte volte un problema di cattiva volontà quando, per esempio, nella più comune di tutte, la depressione, la prima capacità che si annulla è proprio la forza volontà.
Sara Esposito V Ap