L’aborto: un diritto o un reato?
Con la legge n. 194 del 1978 sulle Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, lo Stato italiano ha decretato la legalità dell’aborto volontario, entro il terzo mese di gravidanza. Come accade spesso in Italia, l’opinione pubblica si è divisa, e il protagonista indiscusso del dibattito è stato il Vaticano. La Chiesa cattolica infatti sostiene che l’accettazione dell’aborto, sia nel comune sentire sia nel costume e nella stessa legge rappresenti un segno di incapacità nel distinguere tra il bene ed il male, soprattutto quando si tratta del diritto alla vita. Molte associazioni contrarie all’aborto lo hanno etichettato come un vero e proprio delitto, che assume una particolare gravità, poiché viene soppresso un essere umano che si affaccia alla vita, debole, inerme, privo anche di quella minima forma di difesa data dal pianto. D’altro canto, coloro che sono favorevoli a questa pratica protestano affinché si smetti di associare l’aborto ad un omicidio, cioè l’uccisione intenzionale di una persona. Ed è a questo proposito che il codice penale fa una netta distinzione tra l’embrione e la persona umana: la vita embrionale ha, senza dubbio, un crescente valore morale che, però, non sarà mai uguale alla vita della persona al momento della sua nascita. La scelta di interrompere una gravidanza o meno rappresenta inevitabilmente una delle decisioni più difficili per una donna, ma dev’essere un suo diritto poterla affrontare. L’interdizione all’aborto, infatti, è una vera e propria costrizione alla maternità, che lede l’assenza stessa delle sue libertà fondamentali: l’autonomia morale, la libertà di coscienza e anche il suo stesso diritto alla vita e all’integrità fisica. Dunque, possono spettare a terzi le decisioni riguardanti il proprio corpo?