Germogli in cerca di luce
In un’epoca in cui la massima aspirazione è la perfezione, è possibile fare della propria fragilità un’arte della gioia quotidiana? Chi non si è mai relazionato con la sua interiorità, risponderebbe di no e giustificherebbe la sua risposta con un’argomentazione alla cui base c’è l’evidenza della negatività della debolezza in quanto incapacità di agire. Chi ha provato a dialogare con se stesso è invece consapevole della propria fragilità e risponderebbe affermativamente alla domanda, in quanto cosciente della differenza tra “debolezza” e “fragilità”.
Ma che cos’è, di per sé, la fragilità?
Il termine fragile deriva dal latino “fragilis”, derivato a sua volta dal verbo “frangere” cioè rompere: si riferisce dunque alla tendenza a “rompersi” intrinseca nella natura dell’ente considerato.
Fragile è la vita umana, destinata a finire.
Fragili sono le emozioni umane, che rendono ogni istante assoluto.
La fragilità nell’uomo, dunque, non è altro che una condizione che riflette i suoi limiti e la sua conseguente vulnerabilità. Da un punto di vista ontologico, ne sono causa i confini umani, tra cui la mancanza di una conoscenza assoluta (come nel caso del”Doctor Faustus” di C. Marlowe) e la consapevolezza della propria caducità nell’infinito (come nel caso di F. Petrarca). Analizzando le cause, è possibile risalire ad alcune delle forme di manifestazione della fragilità: una è indubbiamente l’arte, che si configura come l’espressione estetica dell’animo umano; non mancano esempi di anime che sono riuscite a rendere la loro fragilità un punto di forza: da Leopardi a Bukowski, da Caravaggio a Van Gogh, da Joplin a Staley.
Ma l’arte non è l’unico mezzo attraverso cui si manifesta la fragilità: quest’ultima, per chi non è disposto ad accettarla (o meglio, ad accettarsi) necessita di essere compensata con la creazione di “idòla”, ovvero immagini ingannevoli che l’uomo adopera per compiacersi delle sue astrazioni; la questione, infatti, è proprio essere consapevoli della propria fragilità e accettarla. A tal proposito il filosofo Blaise Pascal afferma:”L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe anche allora più nobile di ciò che lo uccide. Perché egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla”.
Dunque solo chi riconosce i suoi limiti è in grado di fare della propria fragilità un’arte della gioia quotidiana: ma in che modo?
È sufficiente ricordare la seguente considerazione di Alessandro D’Avenia: “Ciò che è sacro al principio è sempre fragile”. Nel suo libro “L’arte di essere fragili”, l’uomo è infatti paragonato ad un seme che, per diventare albero, necessita di spezzarsi; diversamente, il germoglio non potrebbe uscire dal guscio per scavarsi una via nel terreno. Ciò significa che solo attraverso la sua fragilità l’uomo è richiamato alla vera bellezza, che non risiede nel suo modo di apparire, ma nella sua essenza.
Alessia Vittozzi IVBsa